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Contributi esclusivi

Benedetto XVI, cosa resta?

Andrea Gagliarducci | ACI Stampa (2015)

 

Due anni dopo, l’eredità di Benedetto XVI è ancora viva. Traspare nei discorsi, nelle idee di riforma, persino nell’operato di un Papa così diverso da lui come Papa Francesco. Sono passati due anni, e sembra essere passata un’eternità. Ma, a guardare bene, tutto ha l’impronta dello straordinario lavoro fatto dal Papa emerito. Solo che non vengono riconosciuti.

Niente di più facile, quando il lavoro viene fatto con umiltà e amore, con straordinaria cura per le cose della Chiesa e allo stesso tempo con grande fondatezza teologica. D’altronde, era questo che avevano chiesto i cardinali a Joseph Ratzinger quando decisero di eleggerlo successore di Pietro. Dopo il grande pontificato di Giovanni Paolo II, ci serviva una personalità che non solo non sfigurasse al confronto con il Papa polacco, ma che avesse le spalle larghe e la capacità di tenere la barra della barca di Pietro. È stata la scelta per un candidato che favorisse l’unità della Chiesa. La speranza e la guida sicura. La predicazione del Vangelo, la spiegazione della dottrina. E la fede vissuta.

Perché in Benedetto XVI vita e teologia si intrecciano, e non ci può essere l’una senza l’altra. La sua riflessione sul “neopaganesimo” dei cristiani che si dicono tali, ma che in fondo hanno perso il riferimento al Vangelo, si trova in uno dei suoi primissimi saggi, che scaturisce direttamente dalle confessioni che ascolta senza sosta nella Parrocchia del Preziosissimo Sangue, dove è inviato come viceparroco al primo incarico. Ed ogni riflessione teologica viene direttamente dal suo confronto con gli uomini e le donne del tempo che sta vivendo. È una teologia in conversazione, quella di Benedetto XVI. Una teologia che però è fondata sulla fede chiara, adulta, senza fondamentalismo. Una fede fondata sulla ragione. Una fede che non venga sballottata da una parte e dall’altra.

La verità è il fondamento della missione, ha detto Benedetto XVI in un messaggio che ha inviato alla Pontificia Università Urbaniana lo scorso ottobre, quando gli hanno intitolato un’Aula Magna. E aveva sottolineato che in questo continuo dialogo tra le religioni, in questo pensare che ci si debba unire come forza di pace, “la questione della verità, quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto, qui viene messa tra parentesi”.

Sono queste le basi che hanno creato Benedetto XVI. Lo consideravano un Papa di transizione. A guardar bene, ha cambiato la Chiesa, in maniera soave. Ha dato una base istituzionale a tante riforme che andavano fatte, da quella della finanza a quella del codice penale vaticano. Ha dato un nuovo impulso al dialogo interreligioso, spostando l’attenzione sulla questione della ragione, e non sui temi di fede, sempre controversi. Anche perché, la fede è una sola. Non a caso, il Cardinal Gehrard Mueller, successore di Ratzinger alla guida della Congregazione della Dottrina della Fede, ha individuato nei discorsi sulla demondanizzazione che Benedetto XVI fece in Germania nel 2011 la base delle idee di riforma portate avanti da Papa Francesco.

C’è molto profumo di Benedetto in questa Chiesa. Persino nello spirito missionario di Papa Francesco, si avverte ancora l’esigenza di parlare di Dio. E la avverte anche Benedetto XVI, che ha detto ai suoi allievi del Ratzinger Schuelerkreis di dedicare il prossimo incontro a “Come parlare di Dio nel mondo contemporaneo”.

Di fronte all’imponente effetto di Papa Francesco, che si riscontra anche nel boom di pubblicazioni su di lui, c’è ancora la necessità di parlare di Dio nel profondo. Vero che le presenze agli Angelus, alle udienze generali, sono aumentate, e che i numeri sono “bombastici”, secondo le parole di una persona che lavora in Prefettura. Ma è anche vero che forse manca il passaggio successivo. Quanto il fedele che si è avvicinato colpito da uno slogan del Papa, da una particolare attività della Chiesa nel sociale, poi riesce a vivere davvero la presenza di Dio? Quanto una Chiesa con una buona immagine è davvero in grado di evangelizzare?

È l’eterno dilemma dell’istituzione Chiesa, divisa tra l’evangelizzazione e la necessità di una buona comunicazione. La seconda sembra aver prevalso sulla prima. Ma Benedetto XVI puntava piuttosto all’evangelizzazione. Una evangelizzazione non basata sui precetti, ma sulla fede viva delle persone. La sua più grande comunicazione restano i tre volumi sulla vita di Gesù. Volumi che raccontano come Benedetto XVI volesse una fede alimentata dalla ragione, come è ragionevole la vita di Gesù stesso. Forse questa è la sua grande eredità: una Chiesa slegata dalle mode, capace di volare con la forza della ragione, in cerca della verità. 

Ratzinger docet: "La Chiesa si ridurrà di dimensioni, bisognerà ricominciare da capo"

Michelangelo Nasca | Vatican Insider

 

Otto rintocchi di campana misurano il tempo e la storia della Chiesa, la bandiera bianca e gialla dello Stato del Vaticano viene ammainata, mentre il picchetto delle Guardie Svizzere chiude il portone d’ingresso di Castel Gandolfo, lasciando alla Gendarmeria Vaticana il compito della sicurezza del pontefice emerito. Alle ore 20,00 del 28 febbraio 2013 il mondo assiste all’evento del secolo… ed è già storia.

Poche battute per ricordare la svolta epocale inaugurata da Papa Benedetto XVI che nel febbraio di due anni fa lasciò il mondo con il fiato sospeso, per aver scelto – liberamente e per motivi di salute – di rinunciare al ministero petrino. «Sono felice di essere con voi – diceva salutando la folla di fedeli radunatasi a Castel Gandolfo nel giorno del suo congedo –, circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene.  Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica […]. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra».

Oggi, con un senno di poi più maturo, la scelta operata da Benedetto XVI – uno dei più grandi protagonisti della teologia contemporanea – risulta ancor più coraggiosa di quanto non sia stato compreso all’inizio. Il tempo, infatti, non ha sbiadito la testimonianza di grande umiltà e abbandono a Dio incarnata da Joseph Ratzinger, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore.

Il patrimonio teologico e culturale lasciatoci da Benedetto XVI – prima da cardinale e poi da pontefice – è molto vasto. In questo breve articolo abbiamo deciso di soffermare la nostra attenzione su alcune interessanti considerazioni relative alla Chiesa che – ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – il card. Joseph Ratzinger sottopose all’attenzione del giornalista Peter Seewald nel corso di una lunga intervista pubblicata con il titolo “Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio” (Ediz. San Paolo, 2001).

Già in altre occasioni, Ratzinger, parlando del futuro della Chiesa si era espresso in termini profetici; la Chiesa – asseriva – «si ridurrà di dimensioni, bisognerà ricominciare da capo. Ma da questa prova uscirà una Chiesa che avrà tratto una grande forza dal processo di semplificazione che avrà attraversato, dalla rinnovata capacità di guardare dentro di sé». Quali erano allora le prospettive – chiedeva Peter Seewald – che ci attendevano in Europa?

«Quando ho fatto questa affermazione – rispose Ratzinger –, mi sono piovuti da tutte le parti rimproveri di pessimismo» (particolare questo che lo ha accompagnato sempre, anche da papa!). L’illustre porporato faceva notare la particolare crisi ecclesiale vissuta in Europa con percentuali di battezzati assai ridotte in diverse nazioni, e i dati statistici non lasciavano dubbi. «La Chiesa di massa – osservava Ratzinger – può essere qualcosa di molto bello, ma non è necessariamente l'unica modalità di essere della Chiesa. La Chiesa dei primi tre secoli era una Chiesa piccola senza per questo essere una comunità settaria. Al contrario, non era chiusa in sé stessa, ma sentiva di avere una responsabilità nei confronti dei poveri, dei malati, di tutti».

Per la realtà ecclesiale osservata da Ratzinger più di dieci anni fa – anche di fronte al calo numerico dei fedeli – bisognava suggerire «nuove forme di apertura all'esterno, nuove modalità di coinvolgimento parziale di coloro che sono al di fuori della comunità dei credenti», con diverse modalità di coinvolgimento e partecipazione nei confronti di chi viveva ai margini della sua comunità. «Dobbiamo essere missionari innanzi tutto nel senso di riproporre alla società quei valori che dovrebbero informare di sé la sua coscienza, valori che sono le fondamenta della forma statuale che la società stessa si è data, e che sono alla base della possibilità di costituire una comunità sociale davvero umana». La Chiesa ha una responsabilità universale. «Non possiamo accettare tranquillamente che il resto dell'umanità precipiti nel paganesimo di ritorno, dobbiamo trovare la strada per portare il Vangelo anche ai non credenti». Per queste ragioni – concludeva il card. Ratzinger – «La Chiesa deve ricorrere a tutta la sua creatività per far sì che non si spenga la forza viva del Vangelo. Per plasmare le masse, pervaderle del suo messaggio e agire in loro come il lievito. Proprio come disse Gesù allora a una comunità molto piccola, quella degli Apostoli: siate lievito e sale della terra».

In quasi otto anni di pontificato, Benedetto XVI ha offerto a tutta la Chiesa la sostanza dottrinale del mistero di Cristo e l’invito a riprendere in mano il Catechismo della Chiesa Cattolica e a ripartire dagli insegnamenti che la fede ci ha tramandato, a recuperare il valore di quella unità ecclesiale che è giunta fino a noi attraverso gli insegnamenti degli Apostoli e dei loro successori per riscoprire nel Maestro, la vera “persona educante”. È a partire da questa bimillenaria prospettiva che, probabilmente, bisognerà continuare a scommettere oggi.

Quel Pontificato che ha consegnato ai posteri perle di rara bellezza

Matteo Matzuzzi | Il Foglio

 

Ci vorranno decenni perché a Benedetto XVI venga dato il posto che merita nella storia. Ai grandi, dopotutto, capita così. I frutti del suo pontificato si vedranno tra un po', come accade solo per i semi piantati ben in profondità, quelli che il vento non può disperdere alla prima folata. Degli otto anni passati da vescovo di Roma, ancora poco s'è sedimentato. Basta rileggersi quanto si scriveva nei giorni e settimane successive alla sua rinuncia, ormai due anni fa. A essere lodato ed esaltato era solo il gesto drammatico del ritiro in preghiera, seminascosto al mondo; la salita sul monte. Un gesto di coraggio come mai prima s’era visto nella storia della Chiesa (Celestino V escluso), scrivevano e dicevano osservatori laici e membri del Clero. Il resto era solo polvere: corvi, documenti trafugati e sbattuti sulle pagine dei quotidiani, scandali vari, mala gestione amministrativa. Ma quel Pontificato ha consegnato ai posteri perle di rara bellezza, che per essere ammirate e apprezzate necessitano di essere prima pienamente interiorizzate. Penso alla magistrale lezione al Collegio dei Bernardini di Parigi, con quel cantico in cui – come ebbe a dire il filosofo Pierre Manent – veniva esaltata la radice cristiana di un’Europa dove oggi, ormai, non ci si pone neppure più la domanda circa Dio, il quaerere Deum. Si potrebbero citare i discorsi a Ratisbona e al Bundestag di Berlino, fraintesi e spesso sottovalutati.

Eppure, è nelle risposte a braccio date dal mite professore divenuto Papa, spesso a bambini o giovani, che si può comprendere la grandezza di Benedetto XVI. Ne cito uno soltanto: Loreto, 2007. Il Pontefice, davanti ai ragazzi lì convenuti in occasione dell’Agorà dei Giovani, parla del silenzio di Dio, questione che ha interrogato per due millenni filosofi e teologi, uomini di fede e atei: “Il Dio silenzioso – disse Joseph Ratzinger – è anche un Dio che parla, che si rivela e soprattutto che noi stessi possiamo essere testimoni della sua presenza, che dalla nostra fede risulta realmente una luce anche per gli altri. Quindi direi, da una parte dobbiamo accettare che in questo mondo Dio è silenzioso, ma non essere sordi al suo parlare, al suo apparire in tante occasioni e vediamo soprattutto nella creazione, nella bella liturgia, nell’amicizia all’interno della Chiesa, la presenza del Signore e, pieni della sua presenza, possiamo anche noi dare luce agli altri”. Parole semplici, dette in una piazza affollata senza testo scritto sottomano. Ma che, da sole, valgono quasi un’enciclica.

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